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Santa Madre Teresa di Calcutta

sabato 28 dicembre 2013

Frozen

Frozen, USA, 2013, Regia di Chris Buck e Jennifer Lee


Recensione di Alberto Bordin


Avete presente quella bella ragazza? Sì, dai, quella davvero carina, quel fiore di ragazza diciottenne che è appena sbocciata donna e che ti offre la sua compagnia a una tavolata e una birra con gli amici; ti basta guardarla negli occhi e dici “questa promette bene”. È quella ragazza che non è bellissima e per questo ti intriga forse un po’ di più perché, chissà come mai, è estremamente graziosa. Parliamo di quel genere di ragazza che non è venuta vestita bene alla serata, ma ha già acceso l’atmosfera con i suoi sorrisi. Ha aperto lei le danze alla discussione e l’argomento è anche interessante; e poi attacca a canticchiare, e spesso, alle volte improvvisa pure. E quanto si ride! – Chissà perché? ma succede. È una ragazza di quella specie che sa vestire un po’ tutto di sobrio fascino e di tanta attesa. Una ragazza che sa reggere bene il gioco quasi pattinasse, che scivola ma poi piroetta. E tutto scorre tranquillo scaldando la simpatia e infine accendendo anche l’aspettativa… E proprio in quell’istante eccola che capitombola.

L’aspettativa infatti aguzza la vista e allora cominci ad accorgerti che tante cose non funzionano, anzi, che alcune proprio non vanno. La ragazza è intonata ma sa essere un po’ un disco rotto; e poi va bene improvvisare, ma se non canta ogni due minuti forse è meglio, e poi quella melodia mi pare di averla già sentita prima … E lentamente si fa avanti l’imbarazzo, perché ti accorgi che sì sorride sempre, ma il suo è un ridere carico di disagio e non di sicurezza. Con un po’ di brividi capisci che non ha nemmeno diciott’anni ma solo sedici e si è infilata a un tavolo di adulti; ti accorgi che potrebbe anche essere bella – sì, ma tra un paio d’anni –; che avrebbe anche carattere – tra un paio d’anni –; e che sarebbe anche intelligente … se non avesse abbandonato gli studi due anni fa.

E il tuo compagno di bevuta ti ascolta mentre ti lagni e ti risponde: “ma via, che te ne importa! Sta sera non avrai trovato l’amore della tua vita, ma non puoi negare il piacere della compagnia!”. Sarà anche vero, ma è stato lui ad invitarvi a quella serata promettendovi qualcosa di eccezionale, avete speso 8,50€ per quella birra in compagnia, e che lui ne dica quel locale è dove avete incontrato i primi e molti dei più cari e caldi amori della vostra vita. Perché è questo che per molti vuol dire entrare a scaldarsi sotto il tetto di casa Disney: ci si aspetta speranzosi un nuovo amore da portare a casa e da aggiungere a una storia di conquiste. E la piccola e bella Frozen forse era una candidata gradevole, ma è uscita troppo presto dal guscio e si è venduta prima di essere maturata a sufficienza.

È questa la sensazione che dà l’intero film: quello di un grande abbozzo non sbozzato. Il film sembra avere davvero voglia di raccontarsi, trasuda un affetto che è disseminato in tanti piccoli dettagli, battute, gag, espressioni nascoste nelle situazioni, nei volti, nei gesti, nei movimenti e in qualche nota inaspettatamente struggente. Ma niente cancella il presentimento che sarebbe dovuto rimanere in stato d’incubazione ancora un anno se non due. Bello il bisticcio tra un cuore che non ragiona e una testa che non ama; eppure se fosse stato davvero coltivato chissà fin dove avrebbe potuto portare la storia! E così il fatto che i segreti dell’amore siano custoditi da troll fatti di pietra; ma questa loro sostanza litica li costituisce solo all’apparenza, costretti al ruolo di semplice collante narrativo. Per non parlare del profondo dramma di Elsa, che vorrebbe vivere la propria identità, libera dal pesante giogo della corona e da quelle responsabilità per le quali i suoi poteri sono una tale minaccia; per assurdo essere se stessa le impedisce di essere per gli altri. E il senso di tutto questo si compie nella sorella Anna, che dovendo fare i conti con un cuore di ghiaccio condividerà la condizione di Elsa, e sarà lei a scoprire che quell’amore che ci sana dai dolori del cuore non può sempre essere atteso dall’esterno ma ad un certo punto deve nascere in noi. Gentile, toccante, intelligente … Ma dov’è che tutto questo trova vera sostanza eccetto che in un discorso?

E questa povertà creativa punge tutta la produzione, priva di un’animazione di qualità, popolata di personaggi anonimi nel disegno e poveri nelle texture, spogliata di dettaglio e struttura, nella fisica degli spazi, della luce e delle atmosfere, dove nulla s-garba ma in fondo tutto si limita solo a essere garbato. Poi il cartone ha certamente voglia di cantare, ma come quei bambini che non sanno quando smettere; spontaneo, articolato anche in qualche duetto che tenta di essere più corposo del precedente Rapunzel, ma lascia oltremodo a desiderare – praticamente sempre –, sia per le basi musicali assolutamente prive di sostanza, sia per talune soluzioni di rima e prosa da far vergogna ai dialoghi di Federico Moccia, sia per un’interpretazione, specialmente recitativa, che in maniera troppo palese prende il testimone da un entusiasmo canterino tutto americano e narrativamente molto poco credibile o coinvolgente.

Sembra di sentire John Lasseter premere faticosamente da dietro. Lo fa con misura e pazienza, lasciando che le cose che devono crescere crescano e che quelle che sono rotte si riparino col tempo; ma tutto il suo genio e il suo affetto all’animazione non possono porre riparo a un prodotto che manca di cuore, e i suoi larghi sorrisi paffuti lasciano il posto a estenuanti sospiri. È evidente fin dal cortometraggio che introduce la pellicola che la Disney è seriamente intenzionata a rivolgersi alle proprie origini, di riscoprire un’originalità e un’identità fedeli al mondo vecchio, senza che sia per questo miope al nuovo. Ma più che interessanti esperimenti d’animazione, non può venir nulla da una storia che non sa perché esiste. Il fatto è che nel nuovo prodotto Disney c’è bisogno di più Ralph Spaccatutto e di meno Frozen; il fatto è che servono più adulti che diventano amici dei bambini, e meno bambini che cercano di fingersi adulti.

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